Oggi vi parlo di una festa “pop”, quella della mia infanzia. La festa di lu “maju”.
“Il primo giorno di Maggio, i diavoli, sotto forma di vento, sono per aria e non danno requie ad anima viva… in alcune parti dell’agrigentino si scongiurano i diavoli tappando le fessure delle porte e delle finestre con immagini sacre… i meno timidi di Sciacca si confortano alzando sull’architrave della porta una corona di fiori di majo…. e proprio in quelle ore si attaccano agli usci delle case i fiori di Maggio, affinchè i diavoli, passandovi e e vedendoli, tirino diritto.” (Giuseppe Pitrè in “Canti, leggende, usi del popolo Siciliano.”)
In queste parole del più antico e autorevole autore delle nostre tradizioni popolari, troviamo le ragioni di una delle più belle tradizioni dei nostri paesi.
Continuando questa tradizione, nella Sciacca degli anni 60, dove non c’erano molte industrie, ma solo attività legate al mare e alla terra, il Primo Maggio aveva un significato diverso da quello” storico” della Festa dei lavoratori. Era una festività legata alla natura, un omaggio all’arrivo della stagione calda con il suo tripudio di colori e profumi. Un’ uscita definitiva dall’inverno per immettersi in una socialità condivisa e genuina.
La mattina del 30 aprile, in particolare nel quartiere di San Michele, era tutta un andirivieni di ragazze in festa. Erano molte le giovani da marito, “picciotti schetti” in quel quartiere. Il programma prevedeva un appuntamento per tutte al tramonto per andare a raccogliere il maio (le margherite gialle) fuori Porta San Calogero.
Già. Negli anni 60 non c’erano ancora costruzioni fuori dalla cerchia delle mura. Era tutta campagna, tutto prati verdi. Le ragazze preparavano le ceste di vimini (coffe). Al tramonto, allegre e vocianti, salivano verso la zona alta del quartiere, ridendo e cantando.
Arrivate fuori la Porta, si faceva a gara a chi riempiva prima delle altre la propria cesta di margherite gialle, le più fresche, le più grandi. Una volta riempite le ceste, si cominciava a giocare tirandosi addosso lu maiu e li “ziti”, un cespuglio con aghi sottili che si incollava ai vestiti. Chi aveva addosso più aghi, aveva più “ziti”. A sera, il ritorno a casa. Ci si sedeva davanti alle porte e si cominciavano a fare i tappetini di margherite gialle da mettere l’indomani mattina davanti all’ingresso delle case.
Non c’erano automobili a disturbare la quiete e l’atmosfera festosa della vigilia di festa. Che spettacolo la mattina del Primo Maggio! Tutta la strada era tappezzata di giallo! Tappeti di maiu dappertutto! Secondo la tradizione contadina portavano fortuna. Si faceva a gara per confezionare corone, cinture, fasce tutte fatte di margherite cucite l’una all’altra, in un crescendo di creatività festosa. Il risveglio definitivo della natura era festeggiato da una popolazione fatta di gente semplice, modesta, povera, ma felice.
Un Primo Maggio festoso, legato alla natura, alla lussuriosa fioritura della margherite gialle che ancora oggi, pur represse dal cemento, crescono spontanee nelle aiuole incolte, nelle campagne, nei prati delle periferie, quasi a voler sfidare la nostra indifferenza e la nostra smemoratezza nei confronti delle belle tradizioni dei nostri antenati che andrebbero invece valorizzate.
Foto a colori delle margherite del fotografo Accursio Castrogiovanni da Caltabellotta.net