Metti insieme un pezzo di storia assai significativo e assai poco conosciuto della nostra Sicilia con un noto attore-regista americano, innamorato delle sue origini siciliane, e che a quel pezzo di storia ha deciso di dedicare un suo film: il risultato si chiama “La porta dell’inferno”, che è il titolo del docu-film proiettato ieri sera a Sciacca nell’Arena Giardino della Badia Grande alla presenza dello stesso autore e regista, Michael Cavalieri, che nell’opera realizzata interpreta sé stesso alla ricerca delle testimonianze personali di chi quel pezzo di storia siciliana lo ha davvero vissuto.
Una bella serata, anzi un evento, nella quale la proiezione del film ha avuto come preludio la presentazione sul palco di Michael Cavalieri e la recitazione di alcune poesie dialettali dedicate alla tematica del film e interpretate con maestria, a doppia voce, da Roberta Morici e Liliana Marciante, accompagnate con il sottofondo musicale di fisarmonica del maestro Ignazio Catanzaro. Di questa prima parte della serata vi proponiamo qui di seguito la registrazione video:
Ma ritorniamo adesso a quel che racconta questo docu-film girato da Cavalieri quest’anno, e che a seguire sarà presentato sul mercato americano.
Cavalieri ci porta alla scoperta, andandone lui stesso alla ricerca, di un pezzo importante della storia sociale, umana ed economica della nostra Sicilia, durata oltre un secolo e che ebbe come scenario le oltre 400 miniere di zolfo, ubicate sopratutto nella parte centrale dell’isola, che rappresentavano all’epoca una delle più rilevanti attività economiche e di cui erano proprietari le più ricche famiglie borghesi siciliane.
In queste miniere, le cosiddette solfare (in siciliano pirrere), lavoravano in una condizione di simil schiavitu’ quei minatori che ogni mattina varcavano il cancello di quella “porta dell’inferno” che fa da titolo al film, per scendere giù fino ad oltre 400 metri di profondità e picconare la dura pietra di zolfo, che poi in grandi sacchi o cesti pesantissimi veniva trasportata sulle spalle fino in superficie, dove veniva poi lavorata e portata allo stato liquido in grandi forni elevati da terra, sui quali occorreva ancora arrampicarsi con quei pesi enormi sempre sulle spalle.
L’aspetto più sconvolgente non era tuttavia quello delle drammatiche condizioni di lavoro, molto spesso mortali, ma il fatto che in queste miniere venivano impiegati anche i cosiddetti “CARUSI”, ossia veri e propri bambini che tante volte erano stato venduti ai ricchi proprietari dalle poverissime e numerosissime famiglie proletarie dell’epoca.
Il regista siculo-americano ricostruisce tutto ciò con amorevole passione, utilizzando anche foto e immagini di quel tempo, ma sopratutto andando con la sua macchina da presa direttamente sui luoghi dove gli scheletri di quelle miniere, veri e propri complessi industriali, esistono ancora come ruderi di fabbricati e grandi macchinari arrugginiti dal tempo che dalle profondità della terra si innalzano verso il cielo, e poi raccogliendo le testimonianze dirette da parte di alcuni anziani ex minatori e dei loro familiari, in uno scenario di struggente bellezza come è quello dei paesaggi e dei paesi all’interno della Sicilia.
Il filo conduttore del racconto che Cavalieri utilizza è non solo la ricostruzione della vita e della morte in quelle miniere, ma anche la costante sottolineatura che lui fa dell’indomito coraggio di quei “carusi” e di quei minatori, che definisce come i suoi supereroi, e del valore fondamentale che stava alla base di questo durissimo lavoro e della scelta, una volta adulti, di non emigrare: la famiglia, e con l’amore per essa la fortissima determinazione nel fare tutto quanto fosse necessario per portare a casa quel misero stipendio che era comunque indispensabile per il sostentamento economico della propria famiglia.
Grazie a Michael Cavalieri e grazie a Betty Scaglione Cimò per averlo portato a Sciacca, facendoci scoprire questa pagina così interessante e forte di storia siciliana.