Di prima mattina si sentiva, nella bottega di donna Maridda, il tocco cadenzato del pestello di legno che battendo sulle mandorle, le riduceva a una poltiglia. Era il periodo del secondo dopoguerra e il rifiorire della vita coincideva con la frenetica attività di tante botteghe artigiane che costituivano lo zoccolo duro dell’economia di Sciacca.
Il laboratorio dolciario era piccolo e si affacciava sulla piazzetta, in pieno centro storico, di fronte al municipio. I passanti potevano sentire l’odore dello zucchero, che unito alle mandorle tritate e all’albume d’uovo, alla farina, formava una pasta morbida e omogenea che si sarebbe trasformata nei dolcetti che tutti amavano avere in tavola nelle feste comandate: le cucchitelle ovvero mezzi cucchiai di bontà. Donna Maridda metteva a riposare la pasta di mandorle nei cassetti di legno di una grande madia per tanti giorni, anche più di una settimana. Teneva anche in grandi contenitori di terracotta quella pasta base che doveva essere conservata per più tempo. Custodiva poi in grandi barattoli di porcellana la cucuzzata, ovvero la marmellata di zucchine che costituiva il cuore di quei dolcetti : un verdissimo tripudio morbido di gusto.
La signora Maridda, (Donna indicava la sua appartenenza alla buona borghesia cittadina),bassina di statura, tarchiata e sempre vestita di nero, con il suo “murriuni” in testa, si affacciava spesso sulla porta del laboratorio, scuotendo sulla piazza la farina eccedente dai cassetti. Quando arrivavano i giorni di festa, l’impasto veniva messo su una grande spianatoia di legno e diviso in piccoli panetti allungati, all’interno dei quali veniva stipato un cucchiaio di cucuzzata. Il forno era caldo al punto giusto e la teglia con le cucchitelle veniva infornata. Una leggera doratura garantiva la cottura a puntino. Uno dei segreti della mitica cucchitella era quella di tritare le mandorle in maniera grossolana, cioè non erano ridotte a una farina, ma mantenevano una croccantezza sotto i denti dovuta proprio al modo sapiente di tritarle nel mortaio.
Appena raffreddate, sulle cucchitelle veniva versata la “velata” di zucchero, leggere, leggera, come il velo di una sposa: zucchero, vaniglia, scorza di limone grattugiata e acqua. Quanto erano morbide al gusto!
Donna Maridda non è una creazione della mia fantasia. E’ veramente esistita e per le persone di Sciacca che non hanno la memoria corta, costituisce un mito della pasticceria. Purtroppo non ho una foto di lei, nè delle sue cucchitelle. Ma so che era imparentata con la famiglia di Stefano Gallo che in Piazza Matteotti aveva , negli anni 70, un negozio di articoli da regalo e anche della famiglia Soderini. (A parlarmi di lei fu proprio il prof. Soderini, che aveva anche un quaderno con le sue ricette.)
Sicuramente la mitica signora aveva ricevuto la ricetta dalle monache della Badia Grande, che custodivano i segreti dei dolci più buoni del passato. Ma si può anche dire che la sua fama aveva oscurato e fatto dimenticare questo particolare. I dolci a base di mandorle avevano il pregio di potere essere conservati a lungo, per settimane , ma anche per mesi, senza alterarsi. Da allora la ricetta si è tramandata a quasi tutte le pasticcerie della città che ne fanno un vanto tra i dolci della nostra tradizione locale.
La glassa che le riveste non é più solo quella di bianchissimo zucchero, ma anche glassa al cioccolato, all’arancia, al pistacchio e chi più ne ha… Anche il ripieno varia.
Qui sopra le creazioni di due amiche che amano la pasticceria della tradizione. Antonella Russo con le sue cucchitelle nere e Antonella Palazzotto con il suo cuore di cucchitella. Donna Maridda ha delle degne eredi in queste signore, ma anche in tanti pasticcieri che hanno continuato nel tempo a dedicare la loro passione a queste piccole delizie.
Giovanni Meli, che fu poeta, medico e professore universitario nella Sicilia del Settecento; il titolo di “Abate” era onorifico e funzionale per varcare le soglie dei monasteri e poter curare le monache di clausura, scrisse dei versi “Li cosi duci di li batii”in cui celebra i dolci siciliani.
“Oh, vui chi aviti ‘na gran passioni/A li sfinci, pastizzi e turtigghiuni,/Vui puru chi mustrati ammirazioni/Di cosi duci e ni siti manciuni,/Liggiti ora sti versi chi disponi/La mia gulusa Musa arruzzuluni, Liggitili ‘cu summa attenzioni/Chi a vui su’ didicati sti canzuni./Musi chi in Elicona vi parati/Di cannola, cassati e cassateddi/Di sfinci, pastizzotti e ravazzati/Cuscusu asciuttu, nucatuli e feddi,/Di milinciani, olivi e capunati/ Di minni, impanatigghi, e lasagneddi/ Vui curtisi a lodari mi insignati/Li cosi duci chiù famusi e beddi./ Io chi su’ amanti di narratorii/Di cosi duci nun provu miserii/Sempri ni tegnu chini li scrittorii/E in iddi sfogu li me desiderii/E pri ristari a li futuri storii/Cu rimi ora burlischi ed ora serii/Eu vogghiu diri li pregi e li glorii/Di li nostri galanti munasteri”