Riprendiamo, e sottoponiamo alla riflessione dei nostri lettori, un passo molto significativo di una delle ultime pubblicazioni di Paola Caridi (Roma 1961), direttrice artistica del Letterando in Fest di Sciacca, saggista e giornalista, fondatrice e presidente di Lettera22 (associazione di giornalisti specializzata in politica estera), corrispondente per Letteta22 dal Cairo dal 2001 al 2003 e da Gerusalemme per i successivi dieci anni, socia dell’Istituto Affari Internazionali.

Paola Caridi si occupa da oltre vent’anni di storia politica contemporanea del mondo arabo, e per questo è stata ultimamente ospite del programma Otto e mezzo di Lilli Gruber per parlare del conflitto in atto tra Israele e i palestinesi di Hamas.

La guerra è lontana, per chi non la vive. È fatta di suoni, terra che trema, muri che cadono perché colpiti da un missile. È fatta di case senza elettricità, rubinetti da cui l’acqua non esce, freddo gelido d’inverno in luoghi che non sono più il posto accogliente dove torniamo ogni giorno, dopo la scuola o il lavoro. Il primo ostacolo, per chi guarda la guerra da lontano, è l’incapacità di capirla. D’immedesimarsi. Sembra un videogioco, ma gli attori, in questo caso, non sono sagome. Sono ciascuno di noi trasportato in un altro spazio. La guerra ha bisogno di essere definita, per essere comprensibile. E le parole sono determinanti, come la cassetta degli attrezzi di un falegname. Proviamo dunque a pensare alle parole che abbiamo ascoltato in questi mesi e negli scorsi anni. Invasione, bombardamenti aerei, ingresso delle truppe di terra, conquista militare di una città, rovesciamento del potere legittimo, colpo di Stato, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, obiettivi civili, obiettivi militari, bombardamenti “chirurgici”, rifugi, file per il pane, profughi, rifugiati, sfollati, attentati terroristici, resistenza armata, rifiuto di un cessate-il-fuoco, negoziati per una tregua, far uscire i civili sui convogli, fuoco sui convogli, fosse comuni. E poi, riarmo nucleare, missili a testata nucleare, missili “convenzionali”. Ognuna di queste parole ha bisogno di essere spiegata per essere compresa, ha bisogno di far parte di un mosaico che compone la crudeltà della guerra. Solo comprendendo queste parole è possibile lavorare per far cessare le armi, e costruire la strada per una pace duratura. Dunque giusta e rispettosa delle parti in causa. Gli amici non fanno la pace, perché gli amici non si fanno la guerra. Possono avere incomprensioni, anche ferirsi, ma se l’amicizia è fondata su basi solide, gli screzi si risolvono. Magari anche con una gran litigata. Diversa è la situazione di chi si fa la guerra e che, alla fine del conflitto, decide con raziocinio e allo stesso tempo con sofferenza che è necessario costruire un percorso che porti alla pace. Chi si fa la guerra pensa che l’altro sia “il cattivo”. Considera sé stesso “il buono”. Giustifica la necessità della guerra grazie a questa opposizione tra me “buono” e te, antagonista, “cattivo”. È proprio per questa logica assurda che tutto è permesso, contro il cattivo. È lecito il suo contenimento e addirittura la sua distruzione. Se il mio nemico è il cattivo, il processo di deumanizzazione è già iniziato: posso ucciderlo, posso bombardare la sua casa, città, scuola, ospedale perché è il simbolo di tutto ciò che considero il male assoluto. Com’è possibile, però, che chi è stato violento contro l’altro, contro il nemico, sia poi disposto a sedersi di fronte a lui, o a lei, per raggiungere una pace giusta?

Paola Caridi raccoglie queste riflessioni per inoltrarsi quindi in un territorio spesso poco conosciuto dalle ragazze e dai ragazzi. Un territorio pieno di parole difficili, per le quali è necessario un vocabolario.

Le parole difficili non sono solo quelle della guerra (bombardamenti, cessate-il-fuoco, armistizio eccetera). Sono anche le parole della pace e della convivenza: democrazia, diritti, libertà, giustizia riparativa, convenzioni internazionali. Perché, alla base dello stare al mondo, c’è una regola fondamentale: mai dimenticare l’umanità che è in noi e nel nostro “nemico”.

Un pensiero su “Le parole difficili della guerra e della pace”
  1. “Mai dimenticare l umanità,che è in noi e nel nostro nemico.Questa è la regola fondamentale dello stare al mondo.”
    Condivido la riflessione di Paola Cariddi e la chiusura finale sopra ŕiportata.
    Abbiate pietà dei minori,degli anziani,delle donne,degli uomini,di qualunque razza,religione ,ceto,colore,paese,ecc.
    Accogliete le parole di Papa Francesco. Prevalga ,anche se in ritardo e dopo migliaia di morti innocenti,la Pace sulla Guerra.
    Lillo Craparo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *