Nel week-end appena trascorso è andata in scena, nella sala – teatro della Multisala Badia Grande a Sciacca, la cinquantaseiesima rappresentazione di un pregevolissimo lavoro di TeatrOltre scritto e interpretato da Franco Bruno: “Sono le storie che fanno paura ai mafiosi”.
Una straordinaria pagina di teatro civile, magistralmente interpretata da Franco Bruno e Nicola Puleo (e con la voce fuori campo di Annalia Misuraca), che racconta la drammatica storia di un femminicidio per mano mafiosa, quello della giovane donna e mamma palermitana Lia Pipitone, fatta uccidere dal padre Antonino Pipitone, boss del quartiere popolare dell’Acquasanta e uomo di Totò Riina.
Un lavoro teatrale che è tornato in città dopo una pausa lunga sei anni e che nel frattempo ha girato l’Italia (ultime tappe Bolzano, Rovereto, San Donà di Piave), facendo incetta di premi.
E che ha una sua storia molto particolare: nasce infatti nel 2014 come un monologo di 15 minuti, ma poi Franco Bruno ci lavorare su trasformandolo in un testo interpretato da due attori e arricchito gradualmente di ulteriori contenuti fino all’attuale durata di 75 minuti circa.
Il protagonista è il padre di Lia, Antonino Pipitone, il quale, narrando l’evento tragico, tenta di spiegare il suo punto di vista. In scena, oltre al padre, il “picciotto”, un servo di scena che incarna l’essenza della mafia: il testo propone, senza veli, la crudezza di una mentalità che non può perdonare chi decide di allontanarsi da essa o esprimere un’idea che possa entrare in conflitto.
Franco Bruno, come suo solito, interpreta il ruolo drammatico del padre (ma con qualche risvolto anche brillante) in modo superbo, da quel grande attore che è da tempo diventato e che non ha assolutamente nulla da invidiare ai più famosi attori professionisti del panorama teatrale nazionale.
Anche Nicola Puleo offre una lezione interpretativa di autentico primo della classe, non solo verbale ma anche in termini di presenza fisica in scena.
Dicevamo dei tantissimi premi che questo spettacolo ha ricevuto nel tempo. Tra gli altri: migliore spettacolo giuria tecnica e per il pubblico al Festival nazionale di Corti Teatrali – Bologna; premio per l’impegno civile al Festival nazionale di Salerno; miglior attore protagonista al Premio Aenaria 2017 di Ischia; miglior attore non protagonista è migliore spettacolo giuria tecnica al Festival II Torrione di Citerna (PG); migliore attore caratterista al Festival UILT Sicilia; migliore spettacolo giuria tecnica al Festival teatrale internazionale TCC “Città di Chivasso”; migliore spettacolo giuria tecnica, migliore spettacolo per il pubblico e migliore regia al Festival teatrale Sipario d’Oro di Rovereto.
Una annotazione a margine: un po’ dispiace e dovrebbe suscitare qualche piccola riflessione sulla richiesta culturale della nostra città il fatto che, quando ritorna tra le mura di casa, uno spettacolo come “Sono le storie che fanno paura ai mafiosi”, pur applauditissimo, raccolga solo poco più di una cinquantina di spettatori in sala in ciascuna delle sue due serate, mentre in altre tappe del tour nazionale abbia fatto sold out e a Bolzano pochi giorni addietro gli spettatori fossero oltre cinquecento.
Hanno risposto molto bene invece le scuole, che rappresentano pur sempre un campo di azione privilegiato per la valenza anche educativa del teatro civile.
La regia tecnica dello spettacolo è stata di Maria Grazia Catania e Salvatore Venezia, i costumi e la direzione di scena di Marina Marchica.
A seguire alcuni frammenti video della rappresentazione di ieri sera e, per chiudere questo nostro servizio, la storia di Lia Pipitone tratta da Vivi.Libera.it
Lia Pipitone
Era nata per la libertà e per questo Lia è stata uccisa. Ha avuto il coraggio e la forza di opporsi alla cultura mafiosa di cui era intrisa la sua famiglia. Lia da giovanissima fa le sue scelte e non ha paura di inseguire i suoi sogni, non si fa fermare dalle minacce. Ha voluto amore e ha saputo donarne tanto. E per questo non doveva rimanere in vita, altrimenti l’onore della famiglia si sarebbe macchiato per sempre.
Rosalia Pipitone, da tutti chiamata Lia, nasce a Palermo e suo padre non è un uomo qualunque: è Antonino Pipitone, boss del quartiere popolare dell’Acquasanta e uomo di Totò Riina. È una bambina dalla carnagione chiara, i capelli biondi e dei grandi occhi marroni, vispi e aperti al mondo. All’età di 10 anni rimane orfana di madre e da allora crescerà con suo padre e sua zia.
Con il passare degli anni comincia a capire chi è davvero suo padre e inizia a ribellarsi, già a partire dalla scelta della scuola superiore da frequentare. Lei vuole continuare a studiare e frequentare il liceo artistico, è appassionata d’arte, di pittura, di colori e di bellezza, ha una propensione naturale per il disegno e vuole imparare, scoprire nuove cose. Ama le poesie di Pablo Neruda e la musica di Guccini, come tanti suoi coetanei. A suo padre questo proprio non va giù, ma grazie alla sua testardaggine e caparbietà riuscirà a vincere questa piccola battaglia e a frequentare quel liceo. Nonostante questa piccola vittoria, quel padre-padrone pone dei limiti alla sua creatività, alla sua voglia di conoscere e di vivere liberamente la sua età.
La scelta d’amore
Prova a rinchiuderla in casa, ma Lia invece, qualche anno più tardi, fugge da casa con il fidanzato Gero, un ragazzo conosciuto a scuola. Una vera e propria fuitina. I due ragazzi riescono anche a sposarsi, nonostante Gero viene minacciato da alcuni boss locali, dietro ordine del papà di Lia. Da quell’amore giovane e ribelle nasce un bambino, Alessio, amato e desiderato dai due neo-genitori. Intanto però suo padre non si dà pace, continua a cercarla per costringerla a tornare a Palermo dove, secondo lui, deve stare. Antonino riuscirà nella sua impresa ma Lia non si dà pace, non può accettare le regole dettate da suo padre, boss dell’Arenella. Così trova il coraggio di contestarlo, anche pubblicamente. Lia non vuole fare la casalinga: ha i suoi sogni, ideali e progetti. Non vuole sottostare a quelle regole, non vuole far crescere il suo bambino in quel clima, vuole che lui possa essere libero, così non si fa domare, non rinuncia al suo spirito indipendente. Nel frattempo l’amore tra Lia e Gero finisce e suo padre non può accettarlo. È un nuovo disonore per la sua famiglia. Lia, infatti, sta così rompendo, una dopo l’altra, tutte le tradizioni che Cosa Nostra impone alle donne di famiglia, una vita di silenzio e sottomissione e il pensiero fisso di suo padre è l’onore della famiglia nel quartiere di Palermo.
Siamo nella Palermo degli anni Ottanta, Lia ama viverla, le piace uscire, ma è costantemente sotto osservazione. Una volta rientrata da scuola è costretta a rimanere a casa per il resto della giornata e, quelle poche volte che le viene concesso di uscire, è vigilata dagli affiliati del clan. Fino a quando un bel giorno, è sospettata di frequentare un altro uomo. Lia frequenta un lontano cugino, Simone Di Trapani, che diventa presto il suo migliore amico, ma nel quartiere si mormora che i due giovani abbiano una relazione extraconiugale. Le voci arrivano subito alla famiglia che non ne può più di quella giovane donna che continua a mettere in discussione la loro subcultura mafiosa. “Meglio una figlia morta che separata”, ripete spesso il padre Antonino che non sopporta che sua figlia è troppo libera e ribelle per fare la donna di mafia, per essere la figlia del boss dell’Arenella. Ecco che allora la storia della presunta relazione extraconiugale diviene subito un pretesto, falso, messo in giro ad arte nel quartiere e in Cosa Nostra per giustificare un’azione punitiva nei confronti di Lia.
Il 23 settembre del 1983
È il 23 settembre 1983 e Lia, giovane ventiquattrenne, bella, solare e piena di vita, entra in una sanitaria all’Arenella, in via Papa Sergio, in cui va spesso. Ma quel giorno non sarà come gli altri. All’improvviso entrano due uomini che nel tentativo di rapinare la cassa le sparano. Lia viene colpita e muore sul colpo, in una calda mattina di fine estate.
Ma la verità è che non si tratta di una rapina finita male, quegli uomini l’hanno seguita: il loro obiettivo non è la cassa del negozio, ma Lia.
Il giorno dopo l’assassinio, Simone Di Trapani, il migliore amico di Lia, viene ritrovato morto sotto il balcone di casa sua. Agli occhi degli inquirenti sembra subito un suicidio ma, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Angelo Fontana, anche in questo caso, due killer di Cosa Nostra inscenarono una terribile messinscena: simularono un suicidio, scaraventando Simone dal quarto piano del palazzo in cui abitava, in piazza Generale Cascino, non prima però di averlo obbligato a scrivere un messaggio: «Mi uccido per amore».