Stasera, domenica 28 luglio, alle ore 20.30, al Castello Incantato, Veronica Galletta presenterà il suo romanzo “Pelleossa”, che ha tra i suoi protagonisti un personaggio ispirato a Filippo Bentivegna.
“Pelleossa”, pubblicato da Minimum Fax, è il terzo romanzo di Veronica Galletta, siciliana trapiantata a Livorno, premio Campiello opera prima nel 2020 con “Le isole di Norman” (Italo Svevo) e finalista nel 2022 al premio Strega con “Nina sull’argine” (Minimum Fax).
Un romanzo ambientato a Santafarra tra il 1943 (sbarco degli americani in Sicilia) e il 1947 (occupazione dei latifondi incolti), una città immaginaria che si trova tra il Monte Cronio e l’isola Ferdinandea, che ha un aeroporto fantasma e i cui cittadini si dividono in contadini (di Terra) e pescatori (di Sali).
L’incontro è organizzato dal Museo Diffuso dei 5 Sensi, in collaborazione con Castello Incantato e la Libreria Ubik Sciacca di Ornella Gulino.
In questa intervista, fatta da Giovanni Accardo, che stasera a Sciacca dialogherà con la scrittrice, Veronica Galletta ci dice qualcosa del romanzo, il resto arriverà nell’incontro dal vivo.
Uno dei personaggi del romanzo è Filippo Bentivegna, realmente vissuto a Sciacca, ma che sembra inventato. Cosa ti ha incuriosito di lui?
Sono rimasta colpita dalla storia di un uomo che per più di quarant’anni ha scolpito isolato nel suo podere, preso da tutti per pazzo. Il rifiuto di vendere le sue opere, il suo lavoro depredato dopo la sua morte. Lui è Filippo Bentivegna, che ho incontrato per caso. Su di lui ho letto e ho studiato, sono stata a Sciacca al suo Giardino, a Losanna al Museo di Art Brut, ma in definitiva la scintilla che sento per quest’uomo che non ho mai conosciuto rimane misteriosa anche per me.
Il romanzo è ambientato in Sicilia tra lo sbarco degli americani (1943) e le lotte contadine per l’occupazione dei latifondi incolti (1947), come mai hai scelto questo periodo?
Ho cominciato scrivendo parti della storia di Filippu, personaggio del romanzo che si ispira liberamente alla figura di Filippo Bentivegna, che visse in quegli anni. Nel farlo, ho cominciato a intessere la trama con la storia dell’isola. È una cosa che faccio naturalmente, far muovere i personaggi nel loro tempo, per me è un gesto politico. Le isole di Norman, il mio primo romanzo, si chiudeva con la strage di Capaci, Nina sull’argine terminava con i mondiali di calcio del 2006. Per Pelleossa la storia dell’isola era così piena di avvenimenti e figure eccezionali che è stato per me come pescare in una grande vasca. Così ho cominciato a raccontare la storia di un’isola destinata a sentire la resistenza solo dai racconti altrui, e mi sono fermata con l’omicidio di Accursio Miraglia, a cui la figura del personaggio Angelo Foglia liberamente si ispira.
Personaggio principale è un bambino, Paolino Rasura, detto pelleossa, che vantaggi offre il suo punto di vista?
Avevo bisogno di affiancare a Filippu, che vive isolato nel suo Giardino ed è tanticchia originale, un altro personaggio, per dare respiro alla storia, permettendole di correre su e giù per il paese, come fa Paolino. Ho una passione per i romanzi con protagonisti i bambini, e la sua figura mi ha permesso di aprire in maniera naturale la porta del fantastico, che è una delle chiavi del romanzo e della mia scrittura in generale.
Oltre ai personaggi in carne e ossa, un ruolo fondamentale ce l’ha la lingua, un siciliano in parte inventato o ricreato da te.
Fin dalle prime parti che ho scritto, più di dieci anni fa, ho avuto chiaro che avrei proceduto con una lingua impastata, sporca, mozza, perché quella era la lingua che permetteva a una storia del genere, che tiene insieme elementi magici e tragici, storie dei vinti e Storia dei libri, di trovare la giusta via per la sospensione dell’incredulità. È stata una scelta complessa da portare avanti, per la quale ho studiato e lavorato molto, sempre con in testa l’idea dell’artigianato, che considero centro del mio lavoro.
Gli eventi si muovono in una città immaginaria, Santafarra: perché non un luogo reale? Come hai costruito questa città?
Quello di trasformare i luoghi in cui ambiento i miei romanzi è un lavoro che faccio sempre, e mentre li immagino li disegno. In questo caso ho lavorato partendo da una base, un paese che si affaccia sul canale di Sicilia, componendola mia Creatura liberamente, io come il dottor Frankenstein, prendendo il cimitero da un luogo che conosco, la cava da un altro, il Giardino di Bentivegna da un altro ancora, aggiungendo un capo, una spiaggia, una collina dietro, spostando un’isola di fronte, aggiungendone un’altra. Scrivendo e disegnando, cancellando e riscrivendo. Così è nata Santafarra.